Praga

Il signore che attraversa la piazza sembra uscito di casa in pigiama. Ha un’aria emaciata, pallido in viso, un passo dinoccolato.

E’ la maglietta ampia, con tutta una serie di disegni identici che si ripetono – sembrano casette e quando mi passa vicino ho l’impressione di riconoscere in quel disegno moltiplicato una cattedrale gotica – che mi sembra più adatta a dormire che a uscire in strada.

Tre ragazze punk – capelli rossi e fucsia, innumerevoli piercing, trucco nero pesante – lo notano e ridono divertite tra di loro.

 

Duty free

Non mi fermo quasi mai nei duty free degli aeroporti. In genere trascorro l’attesa dell’imbarco leggendo un libro, una rivista o guardandomi attorno cercando di rilassarmi. L’unico negozio che m’interessa a volte è quello dove vendono orologi.

Oggi a Lione ce n’è uno proprio di fronte al controllo bagagli. Recupero la ventiquattrore, rimetto l’orologio al polso, la valigia a tracolla e mi dirigo verso la vetrina. Entro a dare un’occhiata.

Ultimamente l’orologio che più mi cattura è il Free lance di Raymond Weil, anche se trovo che sia fuori misura per il mio polso. L’altro orologio dei miei desideri è il Monaco di Tag-Heur. Cassa quadrata, sfondo azzurro, aria vintage e sportiva allo stesso tempo. Decisamente il più accattivante. Ma mi dico convinto che non arriverò mai a buttare 4.000 Euro per un orologio.

La commessa fino ad ora seduta dietro al banco si alza per servire una signora. E’ alta una spanna più di me. Le dico bonjour.

Mentre faccio per uscire dal negozio – dove avrò passato in tutto un paio di minuti – osservo un uomo sui sessant’anni dall’aspetto giovanile, completamente calvo, con la carnagione leggermente gialla, chissà se per la stanchezza o gli stravizi di una settimana di lavoro in trasferta. Fissa la vetrina dei gioielli da donna, immobile, concentrato.

D’istinto guardo anch’io per capire che cosa stia valutando: un anello, una collana o degli orecchini. Mi prende una leggera delusione quando mi accorgo che sta fissando un collier tempestato di brillanti, forse costosissimo, ma ai miei occhi inequivocabilmente pacchiano.

Mi chiedo per chi possa mai essere un regalo del genere. La moglie, la figlia, una fiamma.

Esco dal negozio sollevato al pensiero che in fondo siano ancora più le persone che gli orologi a incuriosirmi.

Il mondo finisce oggi pomeriggio alle tre

com’è tutta la vita e il suo travaglio

in questo seguitare una muraglia

che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia

(Meriggiare pallido e assorto, Eugenio Montale)

 

Il mondo finisce oggi pomeriggio alle tre. Ho nove anni e sono in strada a giocare con gli amici. Abbiamo passato l’intera mattina a rincorrerci e ora decidiamo di trascorrere il pomeriggio in un deposito di bibite abbandonato, all’angolo di via Lametta. E’ un luogo circondato da una vecchia rete metallica piena di buchi per cui è facile entrare, percorrere il cortile infestato di erbacce e nascondersi dietro cataste di casse con bottiglie vuote di aranciata, coca cola e acqua.

Oltre alle pile di casse c’è un caseggiato basso, diroccato, finestre con i vetri rotti, porte sfondate. Sono pochi quelli che osano abbandonare la luce del sole per addentrarsi all’interno in un meandro di ragnatele, frantumi di vetro, scontrini sbiaditi, foglie secche. Abbiamo sempre sognato di scoprire un tesoro dentro questo vecchio deposito, che per noi bambini di sei, sette e nove anni, potrebbe essere anche solo qualche spicciolo, un quaderno ammuffito dove scarabocchiare i piani delle nostre battaglie, una bottiglia intatta. Ma nonostante le perlustrazioni non abbiamo mai trovato niente. Pure i tappi di bottiglia piegati e arrugginiti non sono più utili per il nostro gioco cicca e spanna.

Andrea è il primo a salire sul tetto e da lassù prende di mira chi rimane a terra con sassi, bacche di palma e fogli di carta arrotolati a spirale da tirare con la cerbottana. Le bacche sono i proiettili migliori. Saccheggiando le palme delle case vicine puoi riempirti le tasche e avere munizioni per ore e ore di battaglia.

A volte ci penso e mi dico che da grande pianterò una palma in giardino così avrò tutte le bacche che voglio. Poi mi chiedo se da grande giocherò mai a cerbottana. E comunque ci hanno detto che oggi pomeriggio il mondo finisce. La notizia ce l’ha data Emanuele, il più grande del gruppo. Nessuno ha osato domandargli chi gliel’ha detto. A turno gli abbiamo chiesto se ne era sicuro. Lui ha risposto serio sì, oggi alle tre.

Il cortile del deposito di bibite è circondato da cinque enormi pioppi, in questo periodo lasciano cadere i pappi come se nevicasse. Ce ne sono dappertutto, come una coperta che avvolge ogni cosa. Si appiccicano ai pantaloni, si infilano nelle scarpe e alcuni bambini se li spargono sui capelli  per gioco.

E’ una giornata grigia, senza vento. Poche auto in giro e nessuna vecchietta in bicicletta di passaggio, il bersaglio preferito delle nostre cerbottane.

Davide, Manuela e io ci siamo riparati dietro una catasta di casse rosse. Tiriamo qualche sasso in direzione di Andrea appostato sul tetto del deposito. Da lui arrivavano tiri regolari di bacche che fanno tintinnare le bottiglie vuote, cadono poco più in la, attutiti dal tappeto di piumini di pioppo. Tutto,  in questo pomeriggio afoso, in questo fatiscente deposito di bottiglie, fa presagire che il mondo debba finire.

Manuela qualche minuto prima delle tre dice di volere andare a casa. Ha un’aria preoccupata, come se stesse per mettersi a piangere. Le dico di restare con noi, sarebbe bello vedere la fine del mondo assieme. Ma non c’è verso di convincerla. Vuole tornare a casa. Si alza in piedi col broncio e un tiro di Andrea la prende in piena guancia con una bacca nera che rimbalza ai suoi piedi. Manuela la raccoglie, la tiene un attimo sul palmo della mano, si mette a piangere e scappa via di corsa.

Resto al riparo dietro le casse con Davide che non parla e guarda sempre più spesso il suo piccolo orologio al polso.

Penso ai miei. Mio padre a lavorare, mia madre in casa con mia sorella al sicuro. Mi chiedo come possa finire il mondo: che fine faranno questi grandi pioppi, con le foglie più alte che tremano appena al vento. Che fine farà questo deposito, tutte queste inutili bottiglie, casa mia, la mia strada, i miei amici.

Passa un auto di corsa dandomi l’impressione di affrettarsi non so dove. Passa una vecchia in bici, lentamente. L’osservo e mi aspetto che le arrivi addosso una scarica di bacche, ma nessuno tira.

Mi sporgo oltre la cortina di bottiglie, alzo gli occhi verso il tetto del deposito. Andrea se n’è andato e adesso mi accorgo che anche Emanuele non c’è più.

Ritorno giù a terra vicino a Davide che mi osserva e con aria smarrita mi dice sono le tre.

Il mio orologio fa le tre e dieci, ma non dico niente a Davide. Mi stringo a lui fingendo di dovermi ancora riparare dai tiri di Andrea.

Le foglie in cima ai pioppi ondeggiano indolenti. Aspetto ancora un po’ poi gli dico dai, andiamo a giocare a cicca e spanna.

A pranzo con Irene

Oggi pranzo con Irene. E’ qui a Firenze perché stamattina ha fatto degli esami in ospedale. Qualche mese fa le hanno scoperto uno scompenso nei globuli bianchi, una degenerazione inspiegabile. Forse un tumore.

La cosa mi sembra seria, ma Irene mentre ne parla ride. E allora mi viene in mente che lei è così: parte sempre dal peggio, tira al melodrammatico, poi si riprende, sdrammatizza.

Dice che è una forma ereditaria e in effetti qualche suo parente ha avuto una cosa simile, tipo sua nonna.

“Se n’è andata per questo?” le chiedo serioso.

“Ma va” fa lei, “è ancora al mondo. Quest’estate compie novantadue anni…”.

Tutto sommato non mi sembra preoccupata. Sono felice di vederla e glielo dico in continuazione. Irene resta la mia ex collega preferita. Una donna tutta d’un pezzo, schietta, spontanea, a volte fintamente ingenua. Con lei mi viene naturale infilarmi in lunghe chiacchierate. Quando eravamo compagni d’ufficio praticavamo il pettegolezzo sfrenato e adesso che non lavoriamo più assieme ogni tanto ci dobbiamo incontrare per metterci in pari.

“Sai che sopra ci sono delle camere?” le dico interrompendola.

“Quindi?”

“Niente. Volevo dirti che ne ho prenotata una per noi due.”

(Sguardo interrogativo di lei)

“Andiamo su.”

“Ma sei fuori? Smettila dai.”

“Guarda, ti resta così poco da vivere… Io ci farei un pensiero…”

Il foglietto in tasca

The boy with the thorn in his side

Behind the hatred there lies a murderous desire for love.

(The Smiths)

C’è quest’uomo seduto in treno di fronte a me. Non fa altro che estrarre un foglietto dalla tasca interna della giacca e appuntare qualcosa rapidamente. Dev’essere una parola. Forse un segno. Apparentemente a intervalli regolari. In realtà a volte ogni cinque minuti, altre ogni quindici secondi.

Si accorge che non posso fare a meno di notarlo. Per cui gli chiedo per curiosità di che cosa si tratta. Dice che segna una x, un punto o qualsiasi altro segno ogni volta che pensa a una persona. La sera prima di andare a dormire ne fa il conto.

Vorrei sapere chi è questa persona a cui lui pensa a intermittenza. Non glielo dico, ma mi legge la domanda negli occhi.

“E’ una che mi ha lasciato.”

“Quante sono le x a fine giornata?” gli chiedo a questo punto, entrando in confidenza.

“All’inizio centinaia” mi dice lui con un’espressione del volto tra il sollievo e la disperazione. “Ora siamo sulle sessanta” aggiunge dopo qualche secondo di silenzio.

Vorrei chiedergli se ha un obiettivo, ma sarebbe una domanda stupida. Però vorrei sapere se c’è una soglia sotto la quale smetterebbe di annotare tutte queste x.

“Voglio essere pronto” mi dice lui, di nuovo senza che io gli dica nulla.

“Pronto a cosa?” chiedo.

“Se mai avrò modo di incontrarla e lei mi chiederà se la penso… Potrò dirle con esattezza quante volte al giorno appare nei miei pensieri”.

“E se l’incontra e lei non glielo chiede?” gli rispondo sorridendo, provocatoriamente.

“Non importa” dice lui “è una cosa che in fondo serve più a me. E ogni sera fatto il conto butto via il foglietto.”

 

L’orologio digitale

Il mio amico ha un orologio moderno, digitale, super tecnologico. Con i secondi che pulsano e persino le frazioni di secondo, illeggibili da tanto scorrono veloci. Ma dice che gli servono per cronometrarsi quando corre. Un orologio sincronizzato col satellite per ritararsi in automatico regolarmente ogni non so quanto sull’ora di Greenwich.

Ma lui, il mio amico, non è mai puntuale.

La mattina a Tunisi

La mattina a Tunisi mentre mi faccio la barba sento il gallo che canta. Come succedeva a La Havana nonostante l’albergo fosse in pieno centro, o a Nairobi quando la mia camera dava sul retro dell’affollatissima Mombasa Road. Canta ripetutamente, come è successo per millenni all’alba. Sentirlo mi riporta indietro di secoli. Luoghi e momenti che non ho vissuto, di cui ho letto nei libri, visto nei film o anche solo immaginato, diventano miei.

E mentre mi arriva il suo canto riesco a cogliere senza malinconia quello che dura ben oltre la mia vita. Il bagliore del sole sull’intonaco bianco delle case. La pace dei cipressi che circondano l’orizzonte. Lo strepito delle rondini nell’aria del mattino. Le voci dei bambini che riecheggiano giù in strada.

King size bed

“Non ci sono camere doppie con letti singoli. L’albergo è pieno. C’è la fiera.”

Pure noi siamo qui a Amsterdam per la fiera.

Il tipo alla reception anche se gentile ci guarda con un’espressione che mescola ovvietà a ironia. E questa sua aria a noi non piace. Gli chiediamo di verificare, di guardare bene. Niente da fare. La camera che abbiamo prenotato e che ci è stata assegnata ha un solo letto: king size.

Il mio titolare lo conosco abbastanza bene, è un coetaneo, abbiamo un rapporto di lavoro informale. Ci diamo del tu. L’unico neo è che lui è un uomo, come me, e nessuno di noi due smania all’idea di dormire assieme, anche se solamente per un paio di notti, in un letto matrimoniale.

“I’m sorry” dice il ragazzo della reception con un accidenti di sorriso ironico.

Ci guardiamo scrollando le spalle più divertiti che imbarazzati. Il ragazzo prende la chiave, ci accompagna in cima a una ripida rampa di scale, apre la porta della nostra camera: ampio ingresso, bagno sulla sinistra e lettone al centro.

“Vi auguro una buona serata” ci dice congedandosi.

La prendiamo sul ridere e siamo d’accordo che dopo avere sistemato rapidamente i bagagli usciamo per andare a cena fuori e fare due passi in centro.

Ora non ricordo dove siamo andati a cena, il ristorante o cosa abbiamo mangiato. Quello che ricordo bene è che era pieno inverno, freddo e pioveva. Per cui ci siamo procurati un ombrello e dopo cena siamo andati a spasso in due, gomito a gomito, sotto lo stesso parapluie. Guarda caso siamo finiti nella zona rossa. Abbiamo passeggiato per strade strette con le vetrine illuminate al neon dove le ragazze di tutti i generi, provenienza, gusti e colori si offrono a pagamento dietro al vetro.

Mentre parlavamo fitto di lavoro, dei colleghi, di come organizzarci il giorno dopo in fiera, commentavamo di straforo anche le ragazze che si presentavano man mano durante la passeggiata. Tipo: hai visto quella? Banali osservazioni sull’aspetto fisico. Insomma cose da maschi.

Fatto sta che proprio nel momento in cui eravamo presi dalla nostra conversazione su un problema da risolvere al lavoro il mio titolare dice: “Io vado qui.”

Mi lascia solo sotto l’ombrello e s’infila in una vetrina dove c’è una tipa minuta biondo platino in bikini, modello nord Europa.

Passo ancora dieci minuti a zonzo in questa sera piovigginosa e decido di rientrare. Sulla soglia dell’albergo mi scappa da ridere perché mi chiedo tra me e me: lo aspetto qui seduto in uno dei divanetti della reception o a letto?

Il ciglio

Sono seduti al tavolino del bar di fianco a me. Non ho niente da leggere, ho bevuto il mio caffè, non posso fare altro che guardarmi attorno e ascoltare.
“Posso fare una cosa?” chiede lei.
“Cosa?” le risponde lui.
“E’ più forte di me” dice lei, “quando vedo un ciglio devo fare il gioco del desiderio”.
“Va bene” dice lui.
Avranno vent’anni. Direi che stanno assieme, ma chi può stabilirlo con certezza.
Lei delicatamente, con un movimento lento, prende il ciglio sul viso di lui con la punta del pollice e del medio a pinza. Riesce ad afferrarlo al primo colpo. Lo deposita sul polpastrello dell’indice della mano destra. Lui mette il polpastrello del suo dito indice sopra quello di lei. Le dita si comprimono una contro l’altra e il ciglio resta schiacciato tra i due polpastrelli.
Il mondo si ferma.
“Desiderio” dice lei guardandolo negli occhi.
Tre, forse quattro secondi di silenzio e lui dice “Fatto. Desiderio espresso”.
Distaccano le dita, il ciglio resta appiccicato al polpastrello di lui.
Lei ci rimane male, ha un aria delusa: “Mai una volta che resti attaccato alle mie dita” dice.
Lui sorride, sembra non dare peso alla cosa.
“Qual è il tuo desiderio?” chiede lui.
“Non si può dire” dice lei. “E il tuo?”
“Il mio desiderio” dice lui “è che si esaudisca il tuo”.
Lei sgrana gli occhi, sorride.
“Solo” dice lei “adesso che me l’hai detto mi sa che non si esaudisce nemmeno il tuo…”

Bau bau

Fa così quando è sovrappensiero. Agitato. In fibrillazione per qualcosa che lo tormenta. Come se improvvisamente fosse solo al mondo. Prende a dire: bau bau miao miao. Bau bau miao miao.
Così. A ripetizione.
Passando per il corridoio, a volte schioccando le dita: bau bau miao miao…
Tra le varie uscite che mi tocca sorbire del mio capo, questa è quella che mi cattura di più.

Con il mio niente

Trattava suo marito a pesci in faccia. Lo scherniva di continuo prendendolo in giro davanti a tutti, come se fosse il suo zimbello. Sempre qualcosa da criticare, da ridire su di lui.

Le poche volte che sono stato a casa loro i gesti più consueti nei confronti del marito erano scrollate di spalle, occhi al soffitto. Le parole più frequenti un misto di commiserazione e compassione.

Lui sempre zitto a incassare i colpi come un sacco pieno di sabbia. Condiscendente, benevolo. Un santo votato al martirio.

Poi un giorno è morto. Finito sotto una macchina.

Lei ora al telefono piange. E mentre cerco di consolarla controvoglia se ne esce con questa frase: “Quando c’era lui con il mio niente ero una signora.”

Sbigottito la sto a sentire ancora qualche minuto senza ascoltarla. Penso a lui. Poveraccio. E con una scusa metto giù.

Janusz va al mercato

Janusz va al mercato di Varsavia il sabato mattina. Lo decide già la sera del venerdì tornando a casa dal lavoro mentre guida, fermo in lunghe colonne di traffico. È un pensiero che gli affiora da solo alla mente e non ha nemmeno bisogno di pensarci: decide che la mattina va al mercato e per pochi soldi compra un piccione. Non spende mai la stessa cifra. In fondo sono diversi anche i piccioni che compra. Lo sceglie, indica al venditore quello che vuole. Prima paga, poi rimette in tasca il portafoglio. Prende il piccione e si allontana fino all’angolo della piazza. Sale su un marciapiede. Quindi libera il piccione e lo segue con lo sguardo fino a quando non scompare dietro le case.

Janusz dice che fa questo perché gli piace e perché lui a casa sua non ha piccioni.