Per atterrare a Odessa l’aereo compiendo una dolce virata si dispone in modo che lo sguardo attraverso i finestrini cade in perpendicolare a terra. In principio compaiono ancora lontani dalla nostra quota case e palazzi tra brandelli di nubi e vapore. Perdendo quota le strade e le case scorrono sempre più velocemente come se l’aereo acquistasse velocità. Quindi compie l’ultimo tratto di volo prima della pista di atterraggio, sempre in virata, sopra un enorme cimitero. Si distinguono perfettamente le croci ortodosse, in ferro e legno, disposte in file regolari su un prato verde pallido. Scendendo verso l’aeroporto le croci sono sempre più nitide. Viene spontaneamente il pensiero che per una tetra ironia della sorte l’aereo potrebbe schiantarsi proprio tra quella interminabile serie di croci.
L’atterraggio e la vista del cimitero tolgono la voglia di parlare ai passeggeri. Improvvisamente sembriamo piombati in un silenzio irreale.
Fuori dai finestrini piove. L’aereo si ferma sulla pista. Dopo qualche minuto si dirige verso un punto a noi sconosciuto. Nei paraggi non ci sono palazzi o capannoni e nemmeno autobus per i passeggeri. Nessuna indicazione sull’aeroporto. Sappiamo che è Odessa, ma a giudicare dall’assenza di personale di terra, dagli aerei immobili parcheggiati in lontananza e da questo cielo grigio che riga di pioggia il finestrino e bagna l’asfalto, potremmo essere in qualsiasi luogo.
Dalla scaletta dell’aereo guardo se mi riesce di scorgere la traccia di una qualche periferia, ma l’orizzonte è chiuso da una cortina di betulle.
L’aeroporto è un edificio fatiscente con i vecchi simboli del partito ancora appesi al cornicione e in alto, sul tetto, a caratteri cubitali, la scritta Odessa.
Dopo la fila per il controllo del passaporto ritiriamo i bagagli in un corridoio appena illuminato dalla luce gialla dei neon appesi al soffitto. Al centro di un’ampia stanza fredda, con un forte odore di ammoniaca e cemento, è parcheggiato un carro con sopra i bagagli. Negli angoli ci sono macerie, piastrelle, bidoni di tempera. Attraverso porte semiaperte si scorgono altre stanze dalle pareti scalcinate.
Il mio collega non ha l’aria né sorpresa né attonita e anch’io in questo momento penso di avere un volto inespressivo. Ci scambiamo poche parole, lo stretto necessario.
Guardo l’orologio. Siamo in ritardo. È oramai buio e ci aspettano seicento chilometri in auto per arrivare a Mariupol.
Nell’atrio dell’aeroporto c’è una ressa di persone che attendono. Una signora ha in mano un cartello con scritti i nostri nomi. È una sconosciuta. Non mi aspetto di vederla sorridere, ma so che sarà lei a prendersi cura di noi.
Oddio come descrizione di arrivo in un luogo lontano è alquanto spettrale. Vista cimitero, assenza di tutto, luce gialla, buio, pioggia e dulcis in fundo la donna triste con cartello.
Che viatico!
Conosci la canzone di Caribou, intitolata appunto Odessa?
No mai sentita, non conosco nemmeno il gruppo. Mo’ la vado a sentire e vedere
Fatto i compiti: ho ascoltato la canzone. Disco, tipo sottofondo prima che inizi la serata, bevendo qualcosa guardandoti attorno, un sottofondo facile. Il testo invece mica leggero, dice tutt’altro rispetto alla musica. Sarebbe stata adatta per quell’atterraggio a Odessa, l’avrebbe reso più leggero. Ciao